sabato 21 novembre 2009

bolletino 01

numero 1 • anno 1 • dicembre 2009

Bollettino a cura del C.L.I.I.U.



Denunciamo le colpe pubbliche
della morte di Sher Khan



Manifestazione
e saluto alla salma di Sher Khan

Giovedì 17.12.2009
ore 17.00
Piazza Vittorio

L'associazione Dhuumcatu invita tutti i compagni, la stampa, le televisioni a diffondere la notizia di questa morte, denunciando che Sher Khan non è morto per il freddo. Della sua morte è responsabile l'amministrazione cittadina. A causarla la pressione psicologica che quest'uomo ha dovuto subire e che è culminata con i 40 giorni di detenzione a Ponte Galeria senza il trattamento medico che da anni Sher Khan seguiva. Le Autorità, quando venerdì scorso lo hanno rilasciato da Ponte Galeria, lo hanno fatto solo per non essere responsabili di questo assassinio.

Accusiamo il Comune di Roma di aver perseguitato Sher Khan, prima sgomberandolo da via Salaria e poi lasciandolo in strada a morire, quel Comune di Roma che manda i vigili a sgomberare i giardini di Piazza Vittorio ma che non si accorge che una persona giace a terra in una notte freddissima.

Siamo convinti che il Governo e l'amministrazione locale abbiano aiutato Sher Khan a morire, perché lui non ha mai abbassato la testa davanti alle discriminazioni e al razzismo.

La salma sarà trasferita da Roma a Milano e da Milano in aereo in Pakistan.



EDITORIALE:
Un giornale di battaglia, un giornale di collegamento

Qualcuno dirà: ma come, un nuovo giornale si va ad aggiungere al sempre più vasto elenco di fogli e bollettini dell’antagonismo sociale? Magari sarà il caso di puntualizzare che questa pubblicazione, di cui è già uscito un numero 0, presenta dei caratteri originali che ne giustificano l'uscita.
Stiamo parlando, infatti, dell’organo di stampa del Comitato Lavoratori Immigrati e Italiani uniti: una struttura aperta, in cui possono lavorare persone che hanno anche significative differenze culturali e politiche, ma che si uniscono attorno ad obiettivi chiari e sulla base di precise discriminanti.
La prima – che questo giornale esprimerà in ogni suo articolo – nasce da una precisa consapevolezza: la lotta degli immigrati, nell’ultimo decennio, ha fatto un salto di qualità, dall’autorganizzazione basata sull’origine geografico al Comitato Immigrati, organizzazione di lotta per i diritti di tutti gli immigrati.
Partita alla fine degli anni ’80, nel segno dell’intreccio con quella mobilitazione antirazzista che vedeva l’attivismo, certo meritorio, dell’associazionismo solidale, essa ha progressivamente mutato i connotati. Soprattutto nella metropoli, è sempre più la lotta di un settore del proletariato che – in quanto sottoposto da ogni punto di vista all’attacco peggiore da parte di Stato e padronato – invoca e cerca di praticare l’unità con gli altri comparti di classe. Nella consapevolezza che un miglioramento nelle condizioni lavorative e di vita degli immigrati non può che riflettersi positivamente sul vissuto di tutti gli altri soggetti sfruttati e che quindi, anzitutto per questo, ancor prima che per nobili discorsi tipo il “rispetto delle culture diverse”, i lavoratori italiani devono evitare di farsi abbindolare da chi indica negli immigrati i loro nemici.
D’altro canto, l’attacco contro gli immigrati è talmente complessivo che – come dimostra, su queste pagine, un articolo che muove dal caso di Stefano Cucchi – è su di loro che è stata in primo luogo sperimentata, attraverso i CIE (ex-CPT), quella sospensione totale del diritto che ora tocca da vicino anche molti giovani italiani.
Dunque, il nostro giornale non nasce da una spinta “avanguardistica”, dalla mera declamazione di ciò che sarebbe necessario a chi subisce lo sfruttamento: semmai vengono colte, qui, dinamiche già in atto, facendo loro da cassa di risonanza e cercando – nei limiti dei propri mezzi – di sospingerle in avanti. Affinché il generoso ma generico antirazzismo solidale che per molto tempo ha dominato a sinistra e che ancora affiora nei cortei, sia superato e si scrivano nuove pagine del conflitto sociale in questo paese.
Risulta evidente, allora, che stiamo parlando di un giornale che non si sottrae alla battaglia politica. Ma, attenzione: essa è intesa in termini diversi da come viene legittimamente portata avanti da gruppi e/o organizzazioni che si muovono sul piano di una progettualità complessiva. La nostra battaglia è soprattutto volta a non ridurre la questione immigrazione nei termini di un’emergenza democratica o della pur giusta affermazione del multiculturalismo. Se con il “Pacchetto Sicurezza” l’Italia ha fatto un passo decisivo verso l’istituzionalizzazione del razzismo, è anche vero che tale provvedimento si colloca in sostanziale continuità con le politiche portate avanti dai governi precedenti di vario colore. Politiche che si sono tradotte in leggi di chiaro segno (Turco-Napolitano, Bossi-Fini), animate dalla volontà di privare gli immigrati di diritti per meglio sfruttarli, nonché di farne il soggetto verso cui dirottare la rabbia dei lavoratori italiani.
È allora impossibile non considerare questi temi come legati alla contraddizione tra capitale e lavoro in questo paese. D’altro canto, proprio partendo da un’analisi concreta della presenza degli immigrati nella penisola, si possono ricavare utili indicazioni su come sono cambiati il mercato del lavoro e la struttura produttiva dell’Italia.
In questo giornale, quindi, affronteremo via i molteplici aspetti della realtà dell’immigrazione, sforzandoci di ricomporli entro il quadro interpretativo appena accennato.
In tal senso, nel contesto di un rapporto con le realtà del movimento antagonista che riteniamo dover essere basato sulla collaborazione e la franchezza, vorremmo sottolineare una cosa. Oggi, a fronte di un dispositivo ormai organico che ribadisce la subalternità degli immigrati in ogni ambito della vita associata, non ci si può limitare ad isolare un aspetto della

condizione immigrata per svolgere attorno ad esso una campagna pressoché esclusiva. Sono utili e talvolta belle le manifestazioni davanti ai CIE, ma lo sarebbero ancor di più se veramente interne ad un percorso generale, capace tanto di ricondurre ogni aspetto dell’attacco contro gli immigrati al suo disegno unitario quanto di iniziare a creare ponti verso settori del proletariato italiano.
Chi si muove nel dispersivo territorio della metropoli sa benissimo, d’altra parte, che il primo passo da compiere verso l’agognata unità tra gli sfruttati è la creazione di collegamenti, più o meno stabili, tra le realtà in lotta. A ciò non si arriva facilmente. Il padronato non divide solo i proletari stranieri da quelli italiani, ma anche questi ultimi tra di loro. In particolare, la ristrutturazione del mercato del lavoro ha frammentato gli sfruttati in miriadi di figure sociali diverse, legate a forme contrattuali d’ogni tipo, creando la possibilità di costruire un’opposizione tra chi vive una condizione di precarietà estrema ed i cosiddetti “garantiti”, in realtà lavoratori sotto attacco nelle tutele conquistate con decenni di lotte.
In un quadro siffatto, però, un giornale che ha tra i suoi referenti le realtà in lotta può svolgere un ruolo. Perché i soggetti raggiunti su queste pagine potranno confrontare la loro esperienza con quelle, analoghe, di altri, mettendo meglio a fuoco l’idea che la loro battaglia per la difesa del posto di lavoro può esser veramente vinta solo se interna ad una mobilitazione più generale. Comprendendo, inoltre, che il lavoratore immigrato è un potenziale alleato, che vive ulteriormente esacerbata rispetto agli italiani una condizione di sfruttamento.
Dunque, è così che si vuole contribuire all’unità che da tempo ormai invochiamo: trasformando queste pagine in uno strumento per la circolazione ed in prospettiva il collegamento tra le lotte. L’unità non si può perseguire astrattamente, ma muovendo dal concreto. Il che può significare anche un’altra cosa.
Occorre dotarsi di tutti gli strumenti per conoscere davvero i soggetti sociali cui ci rivolgiamo, per sapere come vivono, come percepiscono se stessi. In tal senso si muove l’ipotesi di inchiesta che qui presentiamo, volta a comprendere come gli immigrati leggono gli episodi di razzismo che quotidianamente subiscono.
Uno strumento per allargare i contatti e per capire: per individuare i modi di sentire e le spinte anche di quegli immigrati che appartengono alle comunità che sono state meno attive nelle lotte di questi anni.
Il punto è questo: solo chi non ha un quadro precostituito, sganciato dall'esperienza concreta e dunque mitico della classe di riferimento, può davvero contribuire all’obiettivo di fondo per cui lavoriamo. Forse il più essenziale tra quelli che oggi deve perseguire chi vuole superare lo stato di cose presenti.





























Dopo la grande manifestazione del 17 ottobre:
che fare?



Il 17 ottobre una grande manifestazione di lavoratori immigrati ha percorso le vie di Roma. Il Comitato Immigrati aveva convocato un’assemblea il 25 luglio chiamando tutte le forze politiche, sindacali e della società civile a un tavolo di discussione finalizzato ad azioni di contrasto al Pacchetto Sicurezza e rivendicare nuovi diritti per gli immigrati. Nei mesi successivi si è aggregato un ampio ventaglio di forze che hanno concordato insieme un’unica data per una manifestazione antirazzista. La manifestazione e le parole d’ordine sono state difese nel difficile percorso di preparazione non senza difficoltà, a causa delle manie di protagonismo d’alcune organizzazioni italiane, CGIL e ARCI in testa, le quali sono state costrette a fare un passo indietro e ad accettare l’impostazione della piattaforma e dell’organizzazione voluta dai lavoratori immigrati.
Il bilancio, dunque, è stato del tutto positivo nonostante il giorno dopo la stampa si sia prodigata a fare propaganda a favore di politici e giornalisti (come il PD o la direttrice dell'Unità) che, nella realtà, o non hanno partecipato alla manifestazione oppure hanno fatto una rapida passerella lungo il corteo. Il Comitato Lavoratori Italiani e Immigrati ha contribuito alla preparazione del corteo attraverso un buon numero di volantinaggi, la produzione di un proprio manifesto e l'elaborazione del n.0 del giornale che state leggendo. Abbiamo propagandato e portato in piazza parole d'ordine specifiche, tese a chiarire i motivi per noi fondamentali dell'unità tra lavoratori italiani ed immigrati. Un’unità necessaria per contrastare gli attacchi del governo e del padronato a tutta la classe lavoratrice, attacchi che tendono ad annullare per tutti i diritti al lavoro e sul lavoro, ai servizi sociali, alla libertà di manifestare. Per noi ogni diritto negato ad un lavoratore immigrato è un diritto sottratto ad un lavoratore italiano.
La basilare battaglia contro il pacchetto sicurezza diventa così una battaglia di tutta la classe lavoratrice.
Con questi contenuti di classe abbiamo caratterizzato il corteo che invece, per una certa stampa di "sinistra", rivendicava un generico antirazzismo di stampo umanitario, nascondendo il fatto che le radici del razzismo e della xenofobia che stiamo vivendo affondano nel sistema economico e sociale creato dal capitalismo. Uno spezzone, il nostro, dove decine di lavoratori immigrati e anche italiani hanno preso la parola insieme a giovani immigrati di seconda generazione, gridando la loro rabbia contro le misure del pacchetto sicurezza, contro le leggi xenofobe di tutti i governi di centro-destra e di centro-sinistra, per il permesso di soggiorno per tutti (e non solo per le categorie di lavoratori che fanno più comodo ai padroni come le badanti, perché gli italiani si paghino in proprio i servizi sociali loro sottratti), per la cittadinanza dai ragazzi nati in Italia, contro lo sfruttamento e il lavoro nero.
Ma fin dall'inizio eravamo consapevoli che la manifestazione del 17 ottobre sarebbe stata soltanto la prima tappa di un percorso cui si dovrà dare una continuità. Soltanto i lavoratori immigrati stessi e i lavoratori italiani più combattivi possono essere all'altezza di questo compito.
Occorre fare tesoro delle rivendicazioni che il 17 ottobre sono venute dai lavoratori immigrati in piazza per fare un passo ulteriore verso la loro auto-organizzazione: estendere il comitato immigrati in tutta Italia, eleggere democraticamente i propri rappresentanti, tessere una rete di lotte coordinate, per raggiungere l'obiettivo dello sciopero generale dei lavoratori immigrati. In Francia ciò sta già avvenendo con il blocco di quei settori nei quali i lavoratori immigrati sono protagonisti ma senza diritti: il lavoro domestico, l'edilizia, l'agricoltura, la ristorazione, le pulizie ecc. Per fare questo occorre anche moltiplicare le occasioni di confronto e di lotta con i lavoratori italiani e, in particolare, con i settori sui quali con più ferocia si sta abbattendo la crisi economica, con licenziamenti, chiusura d’aziende, cassa integrazione.
Per questo è nato e continuerà a lavorare il Comitato Lavoratori Italiani e Immigrati Uniti.














Assemblea Cittadina per una Vita Dignitosa

· La morte di Sher Kham
· Emergenza “Freddo”
· Emergenza Casa
· Bollette insolute

Giovedì 14 Gennaio 2010 ore: 17h00
Luogo: Angolo di Sher Khan (Piazza Vittorio)

Invitiamo alle donne ed uomini immigrati ed italiani di buona volontà e voglia di lottare per un cambio vero di questa società. Ormai arrivata. Cosa Fare?

Comitato Immigrati in Italia (Roma)



Due parole sul caso Cucchi

Il caso di Stefano Cucchi per alcuni giorni ha occupato le prime pagine dei giornali. Ha, infatti, suscitato un certo scalpore la “notizia” di questo giovane geometra di Tor Pignattara morto “misteriosamente” nel reparto detenuti del Sandro Pertini.
Ormai è praticamente certo che a causare il decesso di Cucchi siano state le lesioni provocate da un pestaggio subito in carcere o nelle celle di “transito” del tribunale, sebbene l'indagine interna abbia già frettolosamente scagionato la polizia penitenziaria. Il rimpallo di responsabilità tra i carabinieri e la polizia penitenziaria non cambia di una virgola la sostanza. Al momento dell’arresto per detenzione di stupefacenti Cucchi è sano. Poi viene pestato e trasportato al Pertini. Qui muore dopo una penosa agonia. È solo grazie alla fermezza dei familiari che si viene a scoprire come, di fatto, si sia trattato di un vero e proprio omicidio a cui hanno concorso l’incuria e l’indifferenza con cui Stefano per lunghi giorni è stato trattato dai medici in ospedale.
La tragedia che ha colpito la famiglia Cucchi non è un fatto isolato ma “soltanto” la punta di un iceberg. I maltrattamenti (in parte denunciati) nelle carceri e nelle caserme sono tanti, così come tanta è la malasanità di cui quotidianamente soffrono e muoiono i lavoratori e i loro cari. Sono cose che si sanno ma che troppo spesso sì “dimenticano” e passano inosservate. Si pensi (lo riferisce la Repubblica del 16-11-2009) che dal 2000 ad oggi nelle carceri italiane sono morte più di 1.500 persone, 150 solo quest’anno, tra le quali 63 suicide (o presunte tali). Questa volta, però, di fronte alla morte di Stefano, tanta gente comune, gente che vive del proprio lavoro e sudore, si è chiesta come sia mai possibile morire così, per mano di coloro che (stando a quanto ci dicono) dovrebbero tutelare la nostra sicurezza e la nostra salute. Si è, magari per un solo momento, usciti dall’indifferenza e ci si è domandati cosa diamine stia succedendo e come si possa essere arrivati a tanta barbarie.
La domanda è giusta e legittima. Qui noi vogliamo provare a fornire un inizio (solo un inizio) di risposta concentrandoci su uno (solo su uno) dei fattori che stanno contribuendo a rendere possibili simili tragedie. Chiediamo al lettore di aver pazienza e di seguirci ancora per qualche riga.
Da anni la stampa, la televisione e chi ci governa sostengono che una delle cause fondamentali del degrado e dell’insicurezza che si vive nei quartieri è la presenza degli immigrati. Si ruba? È colpa dell’immigrato. Mancano le strutture sanitarie? Gli asili sono pochi? Non ci sono case popolari? Colpa dell’immigrato che se n’approfitta e impedisce all’italiano di usufruirne. Non c’è lavoro? Sempre colpa dell’immigrato che ce lo ruba. E quindi? Giù duri contro gli immigrati. Così contro di essi negli ultimi quindici anni sono state varate una serie di leggi che ne limitano fortemente i diritti più elementari facendone, di fatto, dei lavoratori e dei cittadini di serie “C”.
“Perla tra le perle” è stata la costituzione di appositi centri di detenzione in cui rinchiudere gli immigrati “colpevoli” di non avere il permesso di soggiorno. Questi “centri” ultimamente hanno cambiato nome: prima si chiamavano CPT (Centri di permanenza temporanea), adesso CIE (Centri di identificazione ed espulsione); la sostanza è restata la stessa, sebbene lo stesso cambio di nome denunci semmai un ulteriore inasprimento delle condizioni: immigrate e immigrati trattati come bestie, stuprati, pestati, umiliati, soggetti a violenze di ogni genere, in assenza di cure mediche (nei CIE si muore ma non lo si dice) e con piena e totale impunità per i responsabili. La politica della mano pesante contro gli immigrati è passata e sta passando nell’indifferenza (o, peggio, con l’appoggio) di una buona fetta di lavoratori. Spesso infatti si pensa che essa possa davvero rendere più sicure le “nostre” esistenze.
Il caso Cucchi dimostra che è vero il contrario. Aver accettato e permesso che agli immigrati venissero negati anche i più semplici diritti non ha per nulla migliorato la situazione nei quartieri popolari. Anzi. La violenza impunita degli apparati dello stato, che fino ad ora poteva sembrare essere riservata agli immigrati, inizia a colpire anche i lavoratori italiani e le loro famiglie, perché ogni diritto negato a un lavoratore, italiano o immigrato che sia, è un diritto negato all'insieme dei lavoratori.
Noi che scriviamo questo giornale siamo dichiaratamente per la piena e totale parità dei diritti tra italiani e immigrati e pensiamo che le politiche e le leggi razziste e discriminatorie servano a scatenare una “guerra tra poveri” che avvantaggia solo chi vive beato nelle terrazze dei Parioli o nelle ville dell’Appia, sfruttando tanto il lavoro degli italiani quanto quello degli immigrati.
Invitiamo il lettore a riflettere su come non sia possibile mantenere i propri diritti se questi vengono negati a chi ci sta accanto.






La vittoria dei lavoratori immigrati e italiani di Bennet Origgio-Turate e DHL Corteolona e la lotta di tutti i lavoratori delle cooperative lombarde indicano un'unica strada da percorrere:
































La lotta auto-organizzata paga
Uniti si vince!



È ormai noto che sul territorio nazionale, uno dei più avanzati al mondo, si consumino livelli di sfruttamento del lavoro ai limiti della sopportazione umana. Generalmente questi fenomeni vengono associati al caporalato tradizionale delle campagne del meridione d'Italia o dell'edilizia selvaggia. Meno noto è che analoghe situazioni siano ampiamente diffuse nella zona più industrializzata del paese; per intenderci, non sotto il sole della Puglia o della Campania ma nelle nebbie delle periferie lombarde del pavese-milanese-varesotto, in quelle zone disseminate di capannoni industriali che, nel dignitoso grigiore del lavoro legale e integrato, quello delle cooperative che nascono e muoiono come funghi, delle cooperative che si passano l'un l'altra il testimone delle commesse (ovvero fanno il lavoro sporco) per conto di ben più note multinazionali, nascondono agli occhi dei più condizioni che vanno ben al di là dello schiavismo.
Le cooperative di cui parliamo sono vocate al trasporto e al facchinaggio delle merci e, non a caso, fanno larghissimo uso di lavoro immigrato, con punte di concentrazione del 95%.

La Bennet di Origgio (VA)
È questo il caso della cooperativa Leonardo che lavora per i magazzini Bennet. Parliamo di 160 lavoratori singalesi, albanesi, tunisini, marocchini, filippini e italiani in condizioni di lavoro pessime, controllati da sgherri razzisti e schiavisti che applicano abitualmente pratiche intimidatorie di stampo mafioso e che si rivolgono a loro con modalità e appellativi che rientrano appieno nella beceraggine razzista. Inutile dirlo, paghe da fame, turni di lavoro massacranti, furto di ore lavorate, contratti disattesi e reparti punitivi per chi si ribella, oltre a ripetuti tentativi di corruzione dei delegati sindacali, peraltro sistematicamente rispediti al mittente. La protesta vera e propria ha inizio con uno sciopero nel giugno 2008, cui fanno seguito numerose iniziative di sciopero e blocco dei cancelli. La risposta dei dirigenti non si fa attendere: un lavoratore singalese, delegato sindacale precedentemente iscritto alla CGIL e poi alla CISL e da queste tradito, si rivolge allo Slai Cobas e per questo, con l'accusa di aver minacciato con un taglierino alcuni responsabili aziendali, viene licenziato. Al contempo, un altro delegato (sempre singalese) viene spedito a ripulire un enorme magazzino che nessuno ha mai pulito, senza che gli vengano forniti i mezzi per farlo né alcuna protezione. Il lavoratore fa ugualmente il suo lavoro ma si sente male e, cadendo, rompe una finestra. Solo il soccorso immediato dei suoi compagni lo salva da una morte certa. Ma i lavoratori non si fanno intimidire: pur rischiando il licenziamento e, quindi, l'espulsione vanno per la loro strada, portando avanti la mobilitazione con una determinazione esemplare.
Organizzati nei Cobas, costantemente sostenuti dalla solidarietà di militanti di diversa appartenenza associativa, da realtà territoriali e studentesche e dai lavoratori di altre cooperative (Olgiate, Pieve Emanuele, Lodi, Cremona, Corteolona, Ortomercato di Milano), i lavoratori della Cooperativa Leonardo (Bennet) lottano incessantemente per cinque mesi, dando vita a cinque scioperi (oltre agli scioperi generali del 17 novembre e del 12 dicembre 2008), presidi, blocchi del cottimo e blocchi del transito dei camion, che intasano letteralmente il traffico delle arterie stradali in direzione di Milano. I camionisti ascoltano le ragioni dei lavoratori in lotta e solidarizzano con loro. Venerdì 19 dicembre il padrone prova a porgere una carota, promettendo la riassunzione del lavoratore licenziato, ma il fronte dei lavoratori non si spacca e continua compatto a rivendicare ben più di una miserabile carota. Il giorno seguente i padroni sono costretti a sedersi al tavolo delle trattative, davanti a una bozza di accordo stesa dal coordinatore Slai e dai lavoratori stessi e proprio al fianco del lavoratore licenziato.
L'accordo con l'azienda prevede: il reintegro del lavoratore precedentemente licenziato, posto come pre-condizione per qualsiasi trattativa, raro esempio ormai di solidarietà di classe; il trasferimento dei kapò razzisti ad altra sede; la costituzione di una commissione formata da responsabili aziendali e da quattro lavoratori per la ripartizione delle ore, delle presenze e dei turni; l'attribuzione dell'ultima trance dell'una tantum sulla busta paga successiva; il diritto alla mensa; 30 euro di aumento per tutti i lavoratori di tutte le cooperative con diverse mansioni, e altri 30 euro di aumento a partire da luglio 2009; una sala medica per il primo soccorso; il riconoscimento della rappresentanza sindacale dei delegati Slai.
La lotta dei lavoratori Leonardo/Bennet ha una portata che non si limita ai risultati economici immediati ma assume un significato politico più ampio. Oltre a indicare una direzione alle lotte di altri lavoratori (come quella di Turate, di seguito riportata), stabilisce un precedente fondamentale per le future lotte dei lavoratori di tutte le cooperative. L'accordo con l'azienda, infatti, sovverte alcuni punti di quelli siglati dalle associazioni padronali e dai Confederali che, ad esempio, avevano bloccato l'una tantum; in particolare, l'aumento salariale ottenuto (che è extra-contrattuale ed equivale a quel che mediamente i Confederali ottengono in due anni a livello nazionale) ha sancito un principio di egualitarismo nel trattamento salariale fra dipendenti di cooperative diverse e fra operai addetti a diverse mansioni, superando un motivo di ulteriore divisione tra i lavoratori.

La Bennet di Turate (VA)
La notizia della vittoria dei lavoratori Bennet di Origgio arriva a Turate che, d'altronde, è appena a 10km di distanza. Turate è sede della cooperativa Cogester (oggi T.I.m.e. Service). La vertenza dei lavoratori Bennet di Turate ha infatti uno strettissimo legame con quella di Origgio: anch'essa parte dal licenziamento di un lavoratore tunisino, ma senza un'ora di sciopero gioca sul fondatissimo timore dei padroni di ripetere la stessa esperienza. Il rappresentante del committente Bennet e quello della cooperativa Cogester firmano un accordo nella sede dello Slai Cobas, che prevede un aumento medio di 270 euro mensili per tutti i lavoratori, portando il salario e le questioni normative ai livelli di Origgio. Questa vicenda dimostra come lo spostamento dei rapporti di forza a favore dei lavoratori riesca a imporre risultati significativi per gli altri lavoratori: è grazie a quelli di Origgio, infatti, che senza un'ora di sciopero i lavoratori di Turate hanno conquistato livelli salariali decenti e diritti, nonché il reintegro del lavoratore tunisino e di altri tre lavoratori licenziati nell'ultimo anno.

DHL Corteolona (PV)
Nella notte tra l'11 e il 12 febbraio 2009 un centinaio di lavoratori della Team Logistica Resources (DHL), il 70% dei quali immigrato, blocca i cancelli della cooperativa e il transito dei camion. L'occasione è il passaggio di mano alla cooperativa Elaia, passaggio che, nonostante le promesse, non prevede il mantenimento dei livelli d’occupazione precedenti. Già nel 2007 a Corteolona si era scatenata la protesta per la morte di un operaio albanese caduto da un muletto nel capannone di logistica, uno dei più importanti della provincia. Alcuni operai dei sindacati di base avevano in quella circostanza presentato un esposto alla Procura della Repubblica per evidenti irregolarità nei sistemi di sicurezza. Nel febbraio 2009 la rivendicazione della sicurezza sul lavoro si unisce a quella contrattuale.
La situazione dei lavoratori di DHL Corteolona è ulteriormente complicata da un'indagine della Guardia di Finanza, che nel giugno 2008 accusa di evasione fiscale per 59 milioni di euro alcune cooperative e l'intero consorzio. L'indagine riguarda anche un falso in bilancio per 118 milioni di euro, attuato con l'emissione di fatture false, prestanome e presenza di fondi neri destinati al salario dei lavoratori. Secondo l'accusa, la cooperativa pavese New Ardo occuperebbe 4.000 lavoratori in nero, con pesanti irregolarità contrattuali (turni non retribuiti e salari da fame).
Nella vicenda DHL Corteolona, più che in ogni altra, le denunce pervenute dai lavoratori e dai delegati sindacali di base riguardano in speciale modo il ruolo giocato dai sindacati confederali (in particolare da CISL e CGIL) che, invece di difendere i lavoratori in una situazione per loro doppiamente penalizzante, si sono resi compartecipi di minacce e di accordi criminali con gli stessi truffatori, favorendo di fatto un sistema di sfruttamento che alla truffa e alla fame aggiunge infortuni e morte. Nel corso del passaggio di mano da una cooperativa all'altra, con la complicità della stessa DHL, la CISL ha promesso tutela e riassunzione alle condizioni precedenti ai lavoratori di Team Logistica Resources, invitati a firmare dimissioni volontarie e nuovi contratti con la nuova cooperativa Elaia. Tuttavia, al momento della firma la CISL non si presenta e ai lavoratori non viene data possibilità alcuna di leggere integralmente il contratto, che è ovviamente peggiorativo dal punto di vista salariale (declassamento dal 5° al 6° livello). Inoltre, non vengono riconosciuti né TFR né arretrati e alla beffa si unisce la minaccia: Elaia comincia a “perdere” i contratti, un lavoratore “scomodo” viene invitato ad allontanarsi e agli altri viene adombrato lo spettro della “perdita” del contratto di lavoro; e tra le vessazioni di ogni genere vi è anche il danneggiamento di alcune macchine all'interno dei parcheggi DHL.
Il 23 giugno lo SlaiCobas indice lo sciopero DHL Corteolona rivendicando: il ritiro del licenziamento di un lavoratore albanese e di un provvedimento disciplinare verso un compagno italiano della TLR, delegato Slai; aumenti contrattuali, corresponsione dell'una tantum 2007 (bloccata dall'accordo con la CISL) e del TFR, che nel passaggio di mano erano stati corrisposti in misura inferiore e integrati in nero con assegni senza riscontro in busta paga; ferie pagate come da CCNL e infortunio integrato al 100%; badge timbrato che dia riscontro delle ore effettivamente lavorate; mensa e tutela della sicurezza; riconoscimento della rappresentanza sindacale scelta dai lavoratori.
Come a Origgio, a sostegno dei lavoratori DHL accorrono lavoratori da Milano, Varese, Cremona, Lodi, Ortomercato nonché il Comitato antirazzista milanese, fin quando la DHL e le due cooperative in questione chiedono un incontro con una delegazione di lavoratori, che nella lotta conquistano la mensa, il 15% dello stipendio decurtato e gli arretrati.

Il risultato immediato non ferma i lavoratori: nel futuro si prospettano altre lotte
Le conquiste fin qui riportate non si sono fermate ai risultati raggiunti. Nel settembre 2009, nella sede dello SlaiCobas di Milano, si è costituito un coordinamento delle varie realtà che hanno partecipato alla mobilitazione delle cooperative, coordinamento che ha riunito un centinaio di lavoratori e che ha dato vita, con i sindacati di base e i centri sociali, al 1° maggio alternativo ai sindacati confederali. In questa sede è stata lanciata una campagna di rivendicazioni:
l proclamato lo stato di crisi, in barba alla legge vigente, i responsabili delle cooperative e i sindacati confederali il 15 luglio siglano un accordo che concede anche alle cooperative nate dopo giugno 2002 di applicare la gradualità degli aumenti salariali, sufficiente la firma di un sindacalista territoriale. Il coordinamento delle cooperative gioca d'anticipo, rivendicando per Origgio, Turate e Santa Cristina il 100% (e non il 70%) di aumento, che equivale a 120 euro;
l lo stesso coordinamento, in base alla conquista del locale mensa, rivendica un’indennità di sostituzione mensa di 5,16 euro giornaliere (il contratto nazionale per questa voce prevede la miserabile cifra di 0,06 euro al giorno);
l in base al principio che tutti debbano avere le stesse condizioni di lavoro, turni, orario e organizzazione del lavoro devono essere stabiliti da una commissione composta per metà da lavoratori.

Senza un'ora di sciopero, è bastato minacciare lo stato d'agitazione per raggiungere l'accordo, anche perché in precedenza per ben due volte, spontaneamente, i lavoratori avevano scioperato con un'adesione del 100% su questioni inconsistenti (addirittura inesistenti), al solo scopo di riaffermare una posizione di forza. Dopo aver verificato che il pagamento del 100% sulla tredicesima, sulla quattordicesima e sulle ex-festività sarebbe avvenuto in date che il contratto nazionale stabilisce a dicembre e a luglio, la scorsa settimana i lavoratori hanno minacciato lo sciopero e così ottenuto l'immediato pagamento delle quote, rigettando l'accantonamento e il pagamento in fasi successive.
Un primo bilancio della lotta dei lavoratori delle cooperative lombarde può essere così sintetizzato:
a) suo risultato “immediato” è il rafforzamento delle posizioni dei lavoratori in quella aziende, dunque un riposizionamento parziale dei rapporti di forza: in quelle aziende oggi non è più come prima;
b) un processo di sintesi di nuovi quadri del movimento operaio: molti di quei lavoratori che hanno lottato e conquistato l'obiettivo del riconoscimento dei propri elementari diritti continuano a riunirsi con altri lavoratori e sono conquistati alla militanza politica e sindacale;
c) processi come questi e altri analoghi vanno nella direzione di rafforzare e rendere possibile quel salto di quantità e di qualità che potrebbe aprire la strada a una nuova stagione di lotte economiche e politiche, per uscire dall’angolo dove siamo costretti oggi.
La sintesi politica più significativa di tutta questa vicenda sta nella dichiarazione che Hamzaoui, lavoratore tunisino della Bennet di Origgio, ha rilasciato in un'intervista: “Noi siamo una mano, un anello di una catena con gli italiani e questa vittoria dimostra qual è la strada da fare”.





Intervista ad un lavoratore ex Eutelia




Sappiamo che la storia delle cessioni dei rami d’azienda non inizia da Agile ed Omega ma parte addirittura dalla Olivetti. Puoi spiegarci meglio quali sono stati i passaggi fino ad arrivare alla situazione attuale?
È una lunga storia di successivi “espropri padronali”. I “capitani coraggiosi” Colaninno e De Benedetti liquidarono l’Olivetti negli anni ’90 per dirottare tutte le risorse così racimolate sulle telecomunicazioni. Mentre all’orizzonte si profilava il boom di internet, di “1 PC in ogni casa”, Olivetti chiudeva tutte le sue fabbriche. Un pezzo considerevole di informatica italiana finì all’americana Wang Global e successivamente venne ceduta alla olandese Getronics. Inutile dire che queste gestioni portarono alla progressiva contrazione di quote di mercato e di livelli occupazionali. Dopo un allarme sui conti economici improvvisamente in rosso, nel 2006 la Getronics cedette la consociata Italiana alla Eutelia. Prezzo concordato 1€, ma nella cessione di ramo d’azienda transitarono verso Eutelia ingenti liquidità e numerosi immobili. Nello stesso anno avvenne la cessione di Bull ad Eutelia, stessa logica di quella di Getronics. Eutelia, fra il 2006 e il 2007, dichiarava ai quattro venti che il suo comprato IT aveva i conti a posto. Ma all’improvviso nel 2008 la situazione dell’IT viene dichiarata fallimentare e si arrivò nel giugno del 2008 a stipulare un contratto di solidarietà con una contrazione delle attività del 37,5%. Ciò porterà circa 40 Mln di € nelle casse di Eutelia, Tutto inutile, perché Eutelia fra maggio e giugno 2009 prima cede l’IT alla controllata Agile Srl. e poi vende Agile al gruppo Omega. Insomma, dai tempi della Olivetti ad oggi, in ogni cessione di ramo d’azienda vi è stata una precedente sottrazione di ricchezza dai conti economici, una società cedente più ricca ed una società ceduta più povera.

Quali sono state le forme di lotta e di protesta fin qui adottate e quali le risposte ricevute dalle istituzioni ai loro diversi livelli, locali e nazionali?
Questo punto è molto dolente perché in tutti questi anni la risposta istituzionale, pur avvicendandosi governi di colore politico diverso, è stata sempre la stessa: totale sudditanza agli interessi delle lobby industriali, finanziarie e bancarie. Fino ad oggi, prima delle occupazioni, abbiamo utilizzato forme “tradizionali” di lotta sindacale, vale a dire scioperi e manifestazioni. Ma la conseguente esposizione mediatica è stata sempre molto limitata, probabilmente perché le lobby coinvolte nelle proprietà con le quali avevamo a che fare (De Benedetti, Colaninno, Monte Paschi di Siena) sono sempre riuscite a condizionare l’area politica che in condizioni normali avrebbe dovuto fornirci un minimo supporto. A questo punto ci siamo convinti che andavano utilizzate forme di lotta più efficaci e abbiamo iniziato le occupazioni.

La crisi che il capitalismo attraversa in questa fase vede un sempre maggior numero di aziende chiudere i battenti, e spesso parliamo di aziende “sane” nella logica capitalista ossia che producono plusvalore, ma a volte la determinazione dei lavoratori, unita ad un ampia solidarietà di classe, ha fatto sì che le lotte per il mantenimento del posto di lavoro raggiungessero il loro scopo. Come vedi in questo senso la vostra battaglia? Che livelli di solidarietà avete ricevuto?
Si riesce a limitare i danni quando le potenzialità industriali di un’azienda possono essere conservate. Ma non è questo il nostro caso. In questi mesi Omega, l’ultima società “killer” con la quale abbiamo a che fare, ha posto i presupposti per la perdita di tutte le commesse, cosa che sta avvenendo in maniera progressiva. Trovo utile e indispensabile che modelli di lotta “forte”contro il padronato parassitario prendano piede e che rinasca una coscienza di classe oggi sopita sotto decenni di qualunquismo. Le lotte della Innse, della Nortel Networks, di Agile e dell’Alcoa, per citare quelle che hanno avuto più spazio su mass media, sono la punta di un iceberg. Ma siamo solo agli inizi e molta strada dovrà essere percorsa.

Avete collegamenti con altre realtà lavorative in lotta? Vi sono collegamenti su base territoriale, soprattutto in relazione alle diverse sedi Agile ex Eutelia oggi presidiate, oltre a Roma Pregnana Milanese, Torino, Ivrea, Padova, Bari. Arrivati a questo punto, quali sono le prospettive che vedete nella vostra lotta?
Allo stato attuale è ancora presto per individuare prospettive concrete. Abbiamo conquistato un tavolo di discussione alla Presidenza del Consiglio ma di per sé questo non vuol dire nulla. In passato abbiamo fatto più volte inutilmente passaggi di questo tipo. Resta solo la nostra determinazione a non mollare.



L'IMMIGRAZIONE AL FEMMINILE





Le donne immigrate costituiscono poco più del 50% della manodopera in quasi tutti i paesi di destinazione dell’emigrazione. In Italia la maggior parte di loro viene dai paesi dell’Europa dell'Est, seguiti da quelli asiatici, africani e latinoamericani. Sono donne che, nella maggior parte dei casi, sono professioniste o con un'educazione superiore acquisita nei loro paesi d’origine, e che sono costrette a lavorare come badanti, domestiche, babysitter o in altre categorie lavorative (commesse o lavoratrici nelle cooperative di servizi). Nella maggior parte dei casi queste donne sono arrivate nei paesi avanzati per il tramite della chiesa (cattolica e protestante), attratte da stipendi che potrebbero risolvere i difficili problemi economici delle loro famiglie nei paesi d’origine.

A causa della acuta crisi economica, le necessità della società italiana sono molto cambiate in questi anni. Adesso non basta più uno stipendio per mandare avanti una famiglia ed è necessario che si lavori almeno in due; ed è proprio qui che la manodopera delle immigrate diventa indispensabile e pertanto molto flessibile, sottopagata e ricattabile. Ricordiamo che, tempo fa, erano le donne emigrate dal Sud d’Italia a fare tutti questi lavori, ma poco a poco sono state sostituite dalle donne immigrate, costrette a lasciare i propri paesi dove la mancanza di lavoro, la miseria e le guerre scatenate dai paesi imperialisti la fanno da padrone.

L’ultima sanatoria berlusconiana, fatta anche per le continue pressioni della chiesa cattolica e delle lotte degli immigrati, prevedeva la regolarizzazione di almeno 700.000 persone ed era valida solo per badanti, domestiche e babysitter. Sebbene secondo i dati della Caritas circa un milione di persone svolgono questi lavori, la sanatoria si è rivelata un fallimento poiché dagli ultimi dati diffusi dal Governo solo 280.000 persone hanno fatto richiesta di regolarizzazione; il resto è rimasto fuori a causa della richiesta di requisiti proibitivi per la maggior parte delle famiglie italiane, come ad esempio il reddito minimo annuo. Ma causa determinante del suo fallimento è che questa sanatoria discrimina tutti i lavoratori immigrati appartenenti ad altre categorie.

Le donne immigrate che non hanno potuto accedere a questa sanatoria hanno visto svanire le loro aspettative e, di conseguenza, il sogno di poter svolgere una vita normale, magari potendo tornare ai loro paesi d'origine o inviare denaro ai loro familiari tramite agenzie, affittare una casa o un posto letto, accedere al servizio sanitario nazionale, iscrivere i loro figli a scuola; insomma, vivere una vita normale e dignitosa come il resto delle lavoratrici.

Da anni gli immigranti sono diventati una parte fondamentale della macchina produttiva dello stato, mano d'opera a basso costo in gran parte specializzata, facile da spremere, come quella dell'Europa dell'Est, occupata nell'edilizia, nei cantieri e, per le donne, nel campo dell'assistenza e negli altri servizi; lavoratori quasi sempre in nero, costretti a lavorare più di dodici ore al giorno senza nessun diritto.

La situazione legale degli immigrati che vivono e lavorano in questo paese è resa ancor più difficile dalle misure adottate nel Pacchetto Sicurezza, che non fanno altro che terrorizzare e ricattare: molte donne immigrate che lavorano come badanti o domestiche sono costrette ad accettare qualsiasi condizione di lavoro in cambio di una certa sicurezza offerta dall’essere nascoste all'interno di una casa, costrette a lavorare anche più di 59 ore settimanali invece delle 39 ore contrattuali. Donne che molte volte sono vittime di abusi, che non possono denunciare poiché l’unico rifugio che hanno è la casa dei loro padroni. È per queste ragioni che si comprende come molte donne si rendono invisibili e non partecipano a nessuna attività sociale o politica, e quelle che non lavorano a contratto si vedono scaricare tutto il lavoro domestico e la cura dei loro figli sulle proprie spalle. La paura di essere denunciate o rimpatriate impedisce loro di partecipare alla lotta e all’organizzazione che da molti anni gli immigrati portano avanti per acquisire diritti, per vivere con dignità e come lavoratori onesti. Questi rappresentano più del 99% del totale dei lavoratori immigrati che lottano per dare ai propri figli un futuro migliore, figli che nella maggior parte dei casi sono nati in Italia o che sono vissuti in Italia fin da piccolissimi, frequentando scuole italiane; figli che, di conseguenza, si sentono italiani ma non godono di nessun diritto.

L’unica strada che resta alle donne lavoratrici e alle mamme è uscire da quest’anonimato e cominciare a organizzarsi. La loro partecipazione è indispensabile poiché l’unità è l’unico modo per fermare quest’attacco sistematico e programmato da parte di tutti i governi di turno, ora dal governo Berlusconi che ha peggiorato le nostre condizioni di vita con il Pacchetto sicurezza.

Bisogna fermare questo clima razzista e d’intolleranza, che ha come scopo quello di dividere i lavoratori italiani da quelli immigrati, impedendo così che si uniscano per lottare contro i licenziamenti, la disoccupazione, la precarietà, di lottare contro il ricatto permanente verso i lavoratori immigranti usandoli come arma contro i lavoratori italiani. Solo l’unità, l’organizzazione e la lotta unitaria con i lavoratori italiani potrà garantire una vita dignitosa.


È necessario approfondire la condizione delle donne immigrate, il problema dei figli, il loro ruolo nella famiglia, nella società e nel mondo del lavoro. Questo ci proponiamo sui prossimi numeri del giornale.









Inchiesta sull’immigrazione




L’inchiesta operaia e proletaria non è certamente un’idea originale del Comitato Lavoratori Immigrati e Italiani Uniti, ma è uno strumento politico per l’agitazione e propaganda che è parte integrante della storia del movimento rivoluzionario, a cominciare dalle 100 domande meglio conosciute come “l’inchiesta operaia” scritta da Karl Marx nel lontano 1880 o la significativa esperienza dei Quaderni Rossi negli anni ’60.
Partendo da questa dovuta quanto parziale premessa, i compagni e le compagne del Comitato Lavoratori Immigrati e Italiani Uniti hanno riflettuto sull’opportunità di utilizzare questo strumento
– che sarà tradotto in più lingue – per approfondire la conoscenza del frammentario tessuto immigrato e, nel contempo, propagandare l’attività e le proposte del Comitato.
Andando di più nello specifico, il nostro intento non è quello di redigere una statistica né fare un sondaggio d’opinione “di massa”, ma più semplicemente andare nei territori proletari della nostra metropoli per cercare di intercettare il maggior numero possibile di lavoratori immigrati, per tentare di avviare, attraverso il dialogo che un questionario automaticamente dovrebbe produrre, una riflessione sulle condizioni di vita e di lavoro degli immigrati anche con riferimento alle discriminazioni e alle aggressioni che quotidianamente subiscono.
L’articolazione pratica del lavoro è semplicissima: individuare luoghi di








concentrazione operaia e proletaria (ad esempio mercati, fermate del bus, piazze di ritrovo, uffici pubblici ecc., dando priorità a quei quartieri dove si sono verificati episodi di aggressioni razziste), portare un banchetto, distribuire un volantino di presentazione, megafonare, cercare di convincere i proletari immigrati a dedicare cinque minuti della loro vita per riempire un semplice questionario.
Insomma, il questionario vuole portare gli immigrati, come parte importante del proletariato urbano, a prendere coscienza della loro condizione e, in ultima istanza, può contribuire a diffondere il virus dell’azione diretta e autonoma di classe per il soddisfacimento dei propri bisogni attualmente negati.
Da qui l’augurio che altri oltre al CLIIU vogliano fare proprio questo tipo di iniziativa: con noi e/o indipendentemente da noi.
Come compagni e compagne del CLIIU, stiamo per iniziare questa “nuova esperienza” consapevoli della fatica da fare, della costanza che ci vuole, dei “… ma vaffa…” che ci prenderemo, ma con la speranza che qualche lavoratore/trice voglia unirsi all’agire politico del CLIIU e la consapevolezza, data da precedenti e ben più illustri inchieste del movimento operaio, che questa iniziativa, se fatta con serietà, potrà dare i frutti sperati.

I risultati di questo lavoro, che dovrebbe vederci impegnati per diversi mesi, saranno pubblicati su questo giornale.













Questionario




1_ Di dove sei? F/M
2_ In quale zona di Roma abiti?
3_ Quanti anni hai Da quanto tempo stai in Italia?
4_ Che lavoro fai? operaio autonomo colf/badante
industriale individuale ad ore
edile ??operai fisso
servizi
agricoltura
5_ Lavori in regola? si/no determinato indeterminato
6_ Quanto guadagni al mese? fino 1000€ fino 1500€ oltre 1500 €
7_ Quanto spedisce al tuo paese? meno 50% più 50 %
8_ Quanto è l'affitto di casa propria mutuo
9_ Con chi condividi la tua casa? famigliari amici ???bambini
???adulti

10_ Percepisci un clima di ostilità nei confronti degli immigrati? no
11_ Sei stato vittima di episodi di razzismo? si no
12_ Pensi che c'è razzismo nel Comune, Asl ed ospedali si no
13_ Pensi che c'è razzismo nei commissariati e questura si no
14_ Pensi che c'è razzismo nelle scuole e nell'università si no
15_ Pensi che c'è razzismo negli autobus, metro e treni si no
16_ Pensi che c'è razzismo nei condomini e quartieri si no
17_ Pensi che c'è razzismo nelle banche, finanziare e negozi si no
18_ Se si: Dove nasce questo razzismo?
a. Delle campagne alla televisione, radio e giornali? si no
b. Dal Governo e delle istituzioni dello stato? si no
c. Dai Partiti Politici e la classe nel potere si no
d. Dalla mentalità tipica italiana si no

19_ Sei al corrente dell'aggressioni nei confronto degli immigrati | si no

20_ Come pensi si possa fermare?
a. Denunciandoli sempre all'autorità ? si no
b. Cercando il dialogo con gli aggressori? si no
c. Organizzando l'autodifesa della sicurezza? si no

21_ Sai che c'è la lotta degli immigrati contro il razzismo si no


22_ Sei iscritto a qualche tipo d'organizzazione si no
Associazione del tuo paese
Sindacato
Partito Politico
Gruppo religioso
Altro

23_ Quale unita è più importante per fermare il razzismo?
di tutte le comunità degli immigrati
dei lavoratori immigrati e italiani
dei lavoratori immigrati, italiani ed studenti

24_ Sai quali sono tuoi diritti, le leggi Razziste e Antirazziste si no

25_ Saresti interessata/o a partecipare a Conferenze, Assemblee, Seminari contro il Razzismo.
si no
26_ Vuoi lasciare qualche recapito telefonico o e-mail per ricevere i risultati della inchiesta.
........................................................................ @ .......................................................
Tlfn:.................................................................





















Nel prossimo numero: Biografia di Sher Khan.
Bollettino 01 Anno 01
Stampato in proprio in via Bixio 12, Roma.
Presso la Ass. Dhuumcatu.
Comitato Immigrati in Italia (Roma)
Telf:0644361830 Fax 0644703448

Come contattare il Comitato Lavoratori Immigrati Italiani Uniti
comlavuni@gmail.com
www.cluii.blogspot.com


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Note sul razzismo

La trasformazione demografica del nostro paese causata da una parte dal calo delle nascite e dall'altro da una ondata di immigrazione che copre la richiesta di tutta una serie di lavori di cui in Italia vi è necessità pongono fatalmente sul tappeto problematiche di cui la classe politica, di destra come di sinistra, si è rivelata incapace non solo di risolverli, ma anche semplicemente di affrontarli.
Oggi i problemi legati all'immigrazione si pongono su due terreni: 1) quello dei diritti civili 2) quello legato al razzismo tout court.
Sui diritti civili la filosofia di questo governo è espressa rozzamente, ma concretamente sul rifiuto totale di qualsiasi diritto non riconoscendo neppure i doveri minimi di ospitalità. Si può quindi accogliere ed utilizzare eventualmente il contributo del lavoratore non italiano (il lavoro, le tasse), ma senza alcun dovere di reciprocità. Il rifiuto del diritto alla cittadinanza per coloro che sono nati in Italia e le grandi difficoltà per avere la cittadinanza di residenza (10 anni contro i 5 di quasi tutti i paesi europei) e gli ulteriori ostacoli nati dalle recenti normative del governo Berlusconi sulla concessione della cittadinanza grazie al matrimonio con un italiano/a la dicono tutta sul ruolo che deve avere un immigrato nel nostro paese.
Lavorare certo, ma non godere di nessun diritto civile, politico e sindacale.
Da questa concezione dei diritti umani come collegati alla cittadinanza nazionale, e non al riconoscimento della appartenenza comune, discende l'inumana politica dei respingimenti nelle acque del Meditteraneo che oltre a violare le più elementari norme marittime come quella di salvare dei naufraghi non tiene in alcun conto le condizioni da cui fuggono donne, uomini e i loro bambini, condizioni che nella stragrande maggioranza dei casi sarebbero sufficienti da sole a garantire la concessione del diritto d'asilo.
Ricordiamo che la stragrande maggioranza di questi naufraghi provengono da paesi africani come la Somalia ed il Sudan, paesi che da decenni sono investiti da guerre sanguinose.
Invece non solo non li accogliamo, ma li rispediamo in un paese dittatoriale come la Libia dove vengono rinchiusi in veri e propri campi di concentramento.
L'introduzione in Italia del reato di clandestinità ha esposto migliaia di persone ai ricatti di chiunque, oltre che alla negazione di diritti fondamentali come le cure mediche, l'istruzione e persino lo status civile di “esistente in vita”.
Viene anche violato uno dei diritti civili più elementari: quello di potere manifestare liberamente il proprio credo religioso.
Tutti gli ostacoli che gli aderenti alla religione islamica trovano nel nostro paese per l'apertura di moschee e le difficoltà a festeggiare le proprie feste -basti ricordare il boicottaggio che le istituzioni comunali hanno messo contro il capod'anno bangladese qui a Roma- pongono sempre di più in prima linea l'obiettivo di lottare per questi elementari diritti civili degli immigrati che vivono (e lavorano) in Italia.
E non si può non vedere con preoccupazione la proposta, che non sappiamo se è rientrata, di alcuni esponenti del Comitato organizzativo del 17 ottobre di fare parlare dal palco esponenti del mondo cattolico senza preoccuparsi degli altri credi religiosi che sono praticati dalla maggioranza degli immigrati: da quello islamico fino a quello ortodosso e protestante.
Buon senso vorrebbe che la manifestazione del 17 Ottobre assuma un carattere il più laico possibile.
E questo in un contesto in cui i lavoratori immigrati subiscono quotidianamente discriminazioni e violenze xenofobe caratterizzate da stereotipi razzisti. Ora l'attuale razzismo (ma il termine migliore sarebbe neo-razzismo) si caratterizza per un “razzismo senza razza” cioè un razzismo dove il tema dominante non è l'eredità biologica, ma l'irriducibilità delle differenze culturali.
Un razzismo che a prima vista,non postula la superiorità di certi gruppi o popoli in rapporto con altri, ma solamente la paura delle aperture delle frontiere, l'incompatibilità dei generi di vita e di tradizioni.
Ora il futuro del nostro paese vedrà gli italiani del XXI secolo sempre meno bianchi e sempre meno cattolici.

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